Dopo quarant’anni di assenza è tornato al Teatro alla Scala il Don Carlo verdiano nella versione italiana in cinque atti. Opera tormentata, rimaneggiata, rivista, corretta e tagliata, Don Carlo rappresenta una delle opere più suggestive e profonde del compositore di Busseto, e in questa stagione 2016/2017 è il secondo titolo operistico proposto dopo la inaugurale Madama Butterfly. Don Carlo accompagna 20 anni di vita verdiana, dal 1867, anno della prima a Parigi della versione francese in cinque atti fino al 1886, anno della prima modenese della versione italiana in cinque atti. E’ proprio questa versione modenese che è scena in questi giorni alla Scala: una versione italiana che ristabilisce il primo atto (cancellato dalla versione scaligera del 1884), tagliando però i ballabili presenti nella versione francese. Ben meno famosa della versione in quattro atti in cui solitamente si esegue l’opera, è interessante la scelta di rimettere in scena questa versione che mancava dall’inaugurazione di stagione del 1977 diretta da Claudio Abbado.
L’allestimento scelto per questa stagione era quello di Peter Stein andato in scena a Salisburgo nel 2013. Si è trattato di uno spettacolo semplice e pulito, suggestivo in alcune parti (un esempio su tutti la scena dell’autodafé), grazie soprattutto all’ottimo disegno luci di Joachim Barth. La regia per il resto risulta molto convenzionale, senza infamia e senza lode. L’allestimento però risulta decisamente inadatto al palcoscenico scaligero. Pensato per gli spazi di Salisburgo e nello specifico per la Grosses Festspielhaus, l’allestimento soffre sul palcoscenico del Piermarini. Stein sceglie di dare allo spettacolo un taglio quasi “cinematografico” a 16:9, tenendo il cosiddetto soffitto (o cielo) molto basso in modo da inquadrare lo spettacolo in un rettangolo basso e stretto. Pensando al teatro di Salisburgo per cui questo allestimento è stato ideato, la produzione e la scelta di Stein prende senso, in quanto la Grosses Festspielhaus ha un palcoscenico molto largo, ma non alto tanto quanto quello scaligero. Questa differenza sostanziale tra il palcoscenico del Piermarini e quello di Salisburgo risulta molto importante, in quanto lo spettacolo risulta decisamente poco fruibile dalle gallerie della Scala (impossibile da vedere la scena dell’autodafé che si svolge in fondo al palcoscenico), ma anche almeno dal quarto ordine di palchi (oltre che dalla quasi totalità dei palchi laterali di quasi tutti gli ordini), tagliando fuori quindi una buona parte di pubblico. L’allestimento andava probabilmente ripensato e adattato meglio agli spazi della Scala. Molto belli e pertinenti i costumi di Anna Maria Heinreich.
La parte musicale ha potuto contare su un cast all’altezza supportato dalla bacchetta del coreano Myung-Whun Chung, molto apprezzato dal pubblico della prima. La direzione di Chung è stata pulita, calibrata e sempre attenta al rapporto tra buca e palcoscenico, riuscendo a piegare l’orchestra scaligera ai diversi momenti che si susseguono nella complessa partitura verdiana. Il ruolo del titolo è spettato a Francesco Meli, dalla bella voce tenorile e dal perfetto physique-du-rôle per la parte del giovane infante. Dopo una partenza in relativamente in sordina nell’aria dell’atto di Fontainebleau con l’aria Io e la vidi e il suo sorriso, il tenore genovese è riuscito a crescere nella sua prova e nell’interpretazione offrendo una performance convincente. Simone Piazzola ha interpretato il Marchese di Posa, ben caratterizzato dal punto di vista drammaturgico e da una suadente voce baritonale, anche se dal volume non troppo ampio. Una sicurezza il Filippo II di Ferruccio Furlanetto: gli anni passano, ma il fraseggio rimane cristallino, la voce torrenziale e l’interpretazione accorata e commovente. Bene anche la controparte femminile del cast formata dalla Eboli di Ekaterina Semenchuk, contestata dopo la sua aria O don fatale, ma che in realtà è riuscita a risolvere in modo più che convincente un ruolo ostico e pieno di insidie, e dall’applauditissima Elisabetta di Krassimira Stoyanova, capace di piegare la sua bella voce lirica ai diversi momenti dell’opera, fino ad arrivare ad un emozionante Tu che le vanità. Completava il cast il buon Inquisitore del basso americano Eric Halfvarson, giunto a sostituire l’indisposto Orlin Anastassov e già presente nella produzione di Salisburgo del 2013. Di buon livello anche il nutrito cast dei comprimari, così come buona la prova del coro del Teatro alla Scala preparato da Bruno Casoni.
Don Carlo sarà in scena fino a metà febbraio, ma il prossimo appuntamento operistico al Teatro alla Scala sarà a inizio febbraio, ancora una volta con Verdi. In scena vedremo Falstaff diretto da Zubin Mehta nella produzione di Damiano Michieletto.
Teatro alla Scala
17 gennaio – 12 febbraio 2017
Don Carlo
dramma lirico in 5 atti
musica Giuseppe Verdi
Libretto di François-Joseph Méry e Camille Du Locle
Don Carlo, Infante di Spagna: Francesco Meli
Filippo II, Re di Spagna: Ferruccio Furlanetto
Rodrigo, Marchese di Posa: Simone Piazzola
Il Grande Inquisitore: Eric Halfvarson
Elisabetta di Valois: Krassimira Stoyanova
La Principessa d’Eboli: Ekaterina Semenchuk
Tebaldo: Theresa Zisser
Un frate: Martin Summer
Conte di Lerma / Araldo reale: Azer Zada
Voce dal cielo: Céline Mellon
Coro e Orchestra del Teatro alla Scala
Direttore: MYUNG-WHUN CHUNG
Maestro del coro: BRUNO CASONI
Regia: PETER STEIN
Scene: FERDINAND WÖGERBAUER
Costumi: ANNA MARIA HEINREICH
Luci: JOACHIM BARTH
(ph. Brescia/Amisano – Teatro alla Scala)
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